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Verho – Curse of Faces, quando il volto è una condanna, recensione

Un dungeon crawler che sembra arrivare dal passato, ma è capace di offrire una visione sorprendentemente matura e inquietante

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Era il 1994 quando l’allora sconosciuta FromSoftware esordì col suo titolo di debutto, King’s Field. Un dungeon crawler e ARPG in prima persona con ambienti renderizzati tramite grafica tridimensionale in tempo reale. A differenza dei capitoli successivi, il primo non varcò mai i confini del Giappone, ma la serie in generale fece da apripista alla software house che tutti oggi conosciamo grazie anche ad Armored Core, Dark Souls, Elden Ring. Tutto ciò ha ispirato la realizzazione di Verho – Curse of Faces, ambientato all’indomani della catastrofica Era della Solitudine, frutto degli sforzi di Kasur Games.

Software house indipendente che ha esordito sul mercato all’inizio di quest’anno con BattleTanks – Animal Wars. Andiamo quindi a scoprire questo tributo alla tradizione della serie King’s Field con questa recensione di Verho – Curse of Faces. Ricordiamo che il gioco, pubblicato da CobraTekku Games, è disponibile solo su Pc, via Steam e GOG. Buona lettura.

IL PESO DI UNA MALEDIZIONE

Fin dai primi minuti di Verho – Curse of Faces si percepisce un’atmosfera magnetica, quella emanata da un mondo strozzato da una maledizione che vieta uno degli atti più naturali e umani: mostrare il volto. Nel regno di Yariv infatti esso non è identità, né riconoscimento, bensì morte. E questo semplice concetto non rappresenta solamente un espediente narrativo, ma diventa invece il nodo tematico da cui discende ogni singolo elemento dell’esperienza.

Non andremo a interpretare un avatar generico, ma un essere definito dalla maschera che indossa. Un manufatto che non è solo protezione ma anche ruolo sociale, classe, potere e memoria. La sensazione è di entrare in un mondo che ha già sofferto moltissimo, che non ha intenzione di compiacere, che non vuole essere spiegato con immediatezza. Il titolo pretende ascolto, attenzione e un certo gusto per l’ignoto, qualità che oggi non molti titoli richiedono con tanta fermezza.

RITORNO A UN’ESPLORAZIONE “LENTA”

Verho - Curse of Faces

Verho – Curse of Faces abbraccia la tradizione dei dungeon crawler in prima persona con una coerenza quasi militante. Non ci sono waypoint né alcun segnale “artificiale”. Bisognerà viceversa fare affidamento sull’arte dell’orientamento, sulla capacità di memorizzare corridoi, stanze, porte lasciate indietro, leve tirate troppo presto o troppo tardi. L’avanzamento assume il ritmo di una lunga respirazione trattenuta, fatta di passi attenti, silenzi pesanti e improvvisi scricchiolii che interrompono la monotonia apparente.

Il sistema di combattimento invece è volutamente drastico: lento, faticoso, punitivo. Ogni colpo dà la sensazione di avere un peso reale, e ogni mancanza di precisione può essere pagata con un ritorno al checkpoint più vicino. Non c’è spazio per l’improvvisazione superficiale: il titolo ci chiede di interpretare i movimenti nemici, di capire le loro traiettorie, di riconoscere le poche finestre utili per infliggere danno. Chi cerca l’immediatezza di un action moderno rimarrà probabilmente spiazzato, ma chi apprezza la disciplina di un combattimento ragionato troverà qui un terreno fertile.

Verho - Curse of Faces

Le maschere d’altro canto, come accennato in precedenza non sono solo un elemento narrativo, ma rappresentano il cuore della progressione. La scelta della maschera iniziale non determina l’ingresso in una classe rigida, ma indirizza comunque verso un certo stile, definendo i parametri di base del nostro personaggio, come Forza, Destrezza e Agilità).

Ciò ci lascerà dunque margine per sperimentare liberamente con armi, magie e approcci differenti. Certo, la crescita del personaggio non risulta mai rapida né gratificante in modo immediato. C’è una “lentezza” quasi rituale nel modo in cui il gioco concede potenziamenti e nuove capacità. Una filosofia coerente con la sua atmosfera, ma che potrebbe risultare scoraggiante per chi preferisce una progressione più generosa, tipica dei titoli moderni.

IL FASCINO DELL’IMPERFETTO

Verho - Curse of Faces

Il tratto più riuscito di Verho – Curse of Faces è però la direzione artistica. L’opera di Kasur Games adotta un’estetica retrò che richiamo appunto i giochi dei primi anni duemila, con modelli poligonali essenziali e texture povere, seppur sapientemente utilizzate. È un’estetica che non cerca il realismo, ma la consistenza: Yariv è un mondo crepuscolare, intriso di nebbie, di superfici consumate, di architetture incomprensibili e minacciose.

La colonna sonora è presente ma rimane volutamente in secondo piano, sviluppandosi su toni cupi e melodie appena accennate. E’ un accompagnamento di supporto all’atmosfera, che ricorda al giocatore quanto non sia il benvenuto nel mondo di Yariv, e che ciò che sta esplorando non è fatto per lui, oltre ad andare al di là della sua comprensione.

Verho - Curse of Faces

Quello di Kasur Games rimane dichiaratamente un’opera di nicchia. Andamento lento, animazioni rigide, hitbox talvolta imprecisa e una notevole quantità di backtracking sono elementi che potrebbero scoraggiare tanti giocatori, a ragione e a torto in misure differenti.

La narrazione ambientale, seppur affascinante, non sempre riesce a fornire il ritmo necessario per mantenere alto l’interesse durante le sezioni più ripetitive. Tuttavia, questi limiti fanno parte di un progetto che sceglie deliberatamente la coerenza rispetto alla modernità, e la personalità rispetto alla comodità. Un progetto, dunque, che si può amare o odiare. Oppure entrambe.

Verho - Curse of Faces

DA AVERE SENZA RISERVE

Verho – Curse of Faces non si limita a riproporre la tradizione dei dungeon crawler, ma la rilegge attraverso una lente autoriale cupa e malinconica. E’ un titolo che si prende il suo tempo, e pretende che il giocatore faccia altrettanto. Non è un’’sperienza per tutti, e non vuole esserlo, ma ciò che offre (un mondo coerente e perturbante, un ritmo meditativo, una direzione artistica brutalmente evocativa) riesce a lasciare un segno profondo.

Chi è disposto ad accettare, superare le sue asperità troverà nell’opera di Kasur Games una delle esperienze più particolari e memorabili del panorama indie recente. Chi invece cerca immediatezza o spettacolo farebbe forse meglio a guardare altrove. Ma per chi ama l’esplorazione solitaria, la fatica del combattimento ponderato e il fascino del mistero, si tratta indubbiamente del posto giusto.

Pregi

Atmosfera unica e coerente, sorretta da un concept forte e ben sviluppato. Dungeon design elaborato e soddisfacente per chi ama l’esplorazione lenta. Sistema di progressione basato sulle maschere originale e ricco di personalità. Direzione artistica Retrò sorprendentemente evocativa.

Difetti

Combat system a tratti legnoso e non sempre preciso nelle hitbox. Ritmo lento e volutamente opaco, inadatto a chi cerca immediatezza. Backtracking frequente che può risultare pesante.

Voto

8

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