Possessor(s), il patto, la città, il corpo, recensione

Un metroidvania che non vuole intrattenere: vuole farti sanguinare

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Possessor(s) è un nuovo metroidvania firmato Heart Machine, nota software house indipendente americana che nel tempo si è fatta conoscere grazie a Hyper Light Drifter (2016) e Solar Ash (2021). Rispetto al apssato però qui il tono è decisamente diverso. Non c’è più spazio per l’astrazione poetica: c’è carne, cemento, rabbia. Non è un gioco che prende per mano i giocatori.

Preferisce invece scaraventarli in mezzo a una catastrofe, spezzando loro le gambe e costringendoli a strisciare. Per poi chiedere di stringere un patto con un demone. Non per raggiungere la salvezza, bensì per sopravvivere, e nient’altro. Addentriamoci in Possessor(s) con questa recensione della versione Pc, curata dal nostro Simone Mafara. Ricordiamo che il gioco, pubblicato da Devolver Digital, è disponibile anche su PS5. Buona lettura.

SANZU CITY NON PERDONA

La storia non parte con un tutorial, bensì con un trauma. Un montaggio di frame, immagini spezzate, ci mostra la Terra invasa da creature deformi, demoni, mostri. E poi c’è Luca. Mutilata, sola, intrappolata sotto le macerie. Striscia, cerca aiuto, trova Rhem. Rhem è un demone, uno dei tanti che hanno portato il mondo al collasso. Ma è ferito, incatenato, furioso. Quest’ultimo propone un patto: lui salva Luca, lei lo ospita. Non è possessione. È coabitazione. Il loro rapporto è il cuore pulsante del gioco. Dialoghi taglienti, visioni condivise, attriti continui. Rhem non è un alleato. È una voce che giudica, che provoca, che ricorda.

E Luca non è una vittima. È una sopravvissuta. Sanzu City è il teatro di questa convivenza forzata. Una metropoli distrutta, isolata, piena di segreti. I suoi corridoi fatiscenti, i laboratori abbandonati, i palazzi deformati raccontano una storia che va oltre la superficie. E poi c’è Agradyne. Una megacorporazione che non produce, ma manipola. Energia demoniaca, esperimenti, controllo. Rhem ne è parte. Luca ne è vittima. E il gioco vi chiede di scavare. Non per capire. Per ricordare.

FRUSTA, OGGETTI POSSEDUTI E DOLORE

Possessor(s) non è un metroidvania che si accontenta di farci saltare. È un gioco che ci chiede di combattere, esplorare, improvvisare. Il mondo è interconnesso, pieno di scorciatoie, zone segrete, potenziamenti. Ma non è mai gratuito. Ogni abilità sbloccata ha un peso. La frusta è il vostro strumento principale. Serve per muoversi, per combattere, per agganciarsi a punti elevati o superare ostacoli.

Ma non è solo mobilità: è strategia. Usarla bene significa dominare il ritmo. Usarla male significa cadere. Le armi non sono convenzionali. Non ci sono spade leggendarie o fucili futuristici. Ci sono oggetti quotidiani (telefoni, posate, chitarre) che diventano strumenti di morte quando “possessi”. Ogni arma ha una sua identità, un suo stile, un suo uso. E potete scegliere.

Il sistema di combattimento è ispirato ai picchiaduro arcade. Parry, combo aeree, juggling. Non è vastissimo, ma è preciso. Serve tempismo, serve agilità, serve memoria muscolare. E quando tutto funziona, il combattimento diventa danza. Per recuperare salute ci sono i “painkiller”. Non sono pozioni. Sono pillole che si ricaricano solo in luoghi specifici, dove potete accedere alla vostra mente e parlare con Rhem.

È un sistema che ricorda le fiasche dei soulslike, ma con un tocco narrativo. La gestione delle risorse è parte integrante del gameplay. I painkiller sono limitati. I punti di salvataggio scarsi. I nemici infliggono danni pesanti. E ogni errore si paga. Ma ogni successo si sente.

IL GLITCH COME LINGUAGGIO

A prima vista, Possessor(s) appare “strano”. Sprite 2D animati a mano, ambienti 3D, colori saturi, distorsioni visive. Ma dopo cinque minuti, tutto ha senso. L’estetica non è decorativa, ma narrativa. Sanzu City è un incubo urbano. Grattacieli fatiscenti, laboratori contaminati, corridoi che sembrano sogni spezzati. Ogni zona ha una sua palette, una sua atmosfera, una sua logica. E ogni scorcio racconta qualcosa.

Gli effetti visivi cambiano in base alla possessione. Quando Rhem prende il sopravvento, il mondo si deforma. I colori si saturano, le linee si spezzano, la realtà si piega. È una rappresentazione visiva del conflitto interiore.
Il sound design è chirurgico. I colpi hanno suoni “crunchy”, le musiche sono malinconiche, gli effetti sonori distorti. Non c’è mai silenzio, ma non c’è mai rumore gratuito. Ogni suono è tensione. Ogni nota è inquietudine.

ESSERE POSSEDUTI, ESSERE VIVI

La narrazione di Possessor(s) non è lineare. È frammentata, viscerale, disturbante. Il patto tra Luca e Rhem è il motore, ma non è l’unico tema. Si parla di identità, di trauma, di dipendenza. Di cosa significa condividere un corpo, una mente, una memoria. Di come si sopravvive quando non si è più interi.

La possessione non è solo meccanica. È psicologica. E il gioco lo rappresenta con colori, suoni, dialoghi. Non vi dice cosa pensare. Vi chiede di sentire. Agradyne è la metafora del potere. Una corporazione che manipola, controlla, sfrutta. Il mondo di gioco è pieno di documenti, indizi, frammenti che raccontano una storia di esperimenti, fallimenti, vendette. Ma non c’è mai una verità assoluta. Solo interpretazioni.

DA AVERE SENZA RISERVE

Possessor(s) non è il metroidvania più innovativo. Ma è indubbiamente uno dei più personali. Combina combattimento da picchiaduro, esplorazione da metroidvania e narrazione da dramma psicologico, il tutto con una coerenza sorprendente. La curva di apprendimento è ripida, i movimenti iniziali possono risultare frustranti e la frusta richiede una precisione che non concede errori. I nemici puniscono e i runback lunghi non aiutano. Ma quando sbloccate le abilità, quando iniziate a sentire il ritmo e a entrare nel flusso, tutto cambia. Il rapporto tra Luca e Rhem è il vero fulcro dell’esperienza: non è solo una meccanica, è una convivenza forzata che diventa narrativa, tematica, ludica.

Combattere con un corpo che non è più solo vostro contribuisce a creare un senso di inquietudine che resta anche oltre la partita. E se da un lato non mancano problemi tecnici, una mappa poco chiara e una certa ripetitività nei nemici, dall’altro c’è un’estetica potente, una storia che colpisce e un’atmosfera che avvolge. L’opera di Heart Machine non è facile o comoda, ma ha qualcosa da dire. E lo fa con immagini, suoni, frasi spezzate. Per chi ama l’esplorazione, la narrazione e quel disagio costruito con cura, rappresenta una scelta solida. Non vi cambierà la vita, forse, ma potrebbe lasciarvi qualcosa dentro.

Pregi

Atmosfera potentissima, combattimento tecnico e soddisfacente, frusta e oggetti posseduti davvero originali, rapporto Luca–Rhem narrativamente incisivo.

Difetti

Difficoltà ripida, runback frustranti, mappa poco chiara e varietà dei nemici limitata.

Voto

8