Mafia: The Old Country, un atto d’amore alla Sicilia, recensione
Immergiamoci in un mondo che profuma di memoria e verità
Mafia: The Old Country (rilasciato nel nostro paese come Mafia: Terra Madre) non si limita a raccontare una storia ambientata in Sicilia. Lo fa dalla Sicilia. È una produzione che non cerca l’esotismo: cerca le radici. Dal primo momento in cui si accende lo schermo, il giocatore viene travolto da un affetto che sa di casa, di vicoli stretti, di “u scrusciu”, delle voci nei mercati. La Sicilia qui non è solo ambientazione: è anima, è presenza. Il gioco infatti non usa la Sicilia come sfondo pittoresco: la mette al centro, la lascia parlare e respirare.
Fin dai primi minuti è chiaro l’intento autoriale di raccontare un luogo prima ancora che una trama criminale. È un videogioco che guarda alla tradizione senza farsi schiacciare dal folklore, usando l’open world come una lente per entrare nelle pieghe di una terra contraddittoria e luminosa. Andiamo però a scoprire Mafia: The Old Country nel dettaglio in questa recensione della versione PS5, curata dalla nostra Kim Fuentes. Ricordiamo che il gioco, sviluppato da Hangar 13 e pubblicato da 2K, è disponibile anche su Pc e Xbox Series X/S. Buona lettura.
ENTRARE NELLA FAMIGLIA, SENZA BUSSARE
La storia segue un giovane rimasto lontano a lungo dalla sua Sicilia e ora rientrato, dopo essere stato richiamato da debiti familiari e dai fili invisibili dell’appartenenza. Non entra però in una gang, bensì in una famiglia: fatta di abbracci sinceri e silenzi che pesano più delle parole. La sceneggiatura lavora sui margini, cucine, cortili, funerali, feste patronali, dove i nodi si stringono davvero. “Tantu tuttu si sapi” sussurra qualcuno, e capisci che ogni gesto è già stato visto, ogni colpa già valutata. Il racconto si articola in archi tematici che non si limitano a cambiare scenario, ma a rinegoziare i legami.
C’è l’onore che protegge e ferisce, l’orgoglio che solleva e acceca, la famiglia che salva e imprigiona. Le missioni chiave non chiedono solo di premere un grilletto, ma di scegliere chi diventare. Tradire un fratello per evitare una guerra, coprire una “fimmina” che ha visto troppo, stringere la mano a chi ti ha fatto del male per salvare i tuoi: sono decisioni che tornano, che bruciano, che modellano il finale senza proclami. La sceneggiatura è intima e profonda: i legami si costruiscono in cucina davanti a un piatto di pasta ‘ncasciata, si spezzano sul ciglio di una strada dopo uno sguardo di troppo, si ricuciono tra le tombe di chi ha pagato il prezzo più alto.
Ogni dialogo ha il sapore di qualcosa che potremmo aver sentito realmente, parole dette con amore, con rancore, con quella sincerità tagliente che appartiene solo alla gente vera. Non ci sono buoni né cattivi: ci sono uomini e donne che cercano di sopravvivere in un mondo che richiede lealtà assoluta, a costo del cuore. I personaggi secondari poi hanno biografie che sporgono oltre la scena. Il vecchio “zù” che insegna la pazienza guardando il porto all’alba. La sorella che non perdona ma non abbandona. L’amico d’infanzia che ha imparato a dire “nenti sacciu, staiu mutu” per sopravvivere.
Non ci sono figure di cartone: Palermo e Catania cambiano tono anche attraverso loro, con parole che diventano provenienza, “cadenza”, persino destino. Quando il gioco decide di colpire, lo fa senza retorica: un mazzo di fiori lasciato su un cofano, un rosario stretto tra le dita, un nome spezzato a metà frase. È lì che ti senti davvero “picciottu” adottivo di quella casa. Alla fine non ti senti solo parte del gameplay: ti senti figlio adottivo di quella famiglia. E quando la storia tocca le corde più fragili, come la vendetta che si abbatte su chi non c’entra o il perdono che arriva tardi, è impossibile non provare un nodo allo stomaco.
UN’AMBIENTAZIONE VIVA E COMMOVENTE
La direzione artistica sceglie una Sicilia reale, vissuta, luminosa e ferita. La luce mediterranea non è filtro estetico: modella i volti, scivola sulla pietra, abbaglia sui cantieri del porto, si fa polvere nelle campagne d’agrumi. Le condizioni meteo mutano il carattere dei luoghi più del colore della minimappa: la pioggia rende viscidi i basolati e abbassa le voci, il maestrale porta “u scrusciu” del mare fino alle piazze interne, la calura pomeridiana spegne i vicoli e accende i cortili.
Il lavoro sul modellamento è incredibile, dentro e fuori. Gli esterni ricreano tessuti urbani che hanno memoria: inferriate consumate, intonaci che raccontano stagioni, edicole votive che stringono le strade come abbracci. Gli interni sono un trionfo di autenticità: maioliche sbeccate, tovaglie cerate, bottiglie riempite a metà. Ogni casa, bottega, ufficio di clan ha un’identità coerente: nulla sembra stampato in serie. È un modo di “parlare” dei luoghi che non si limita a decorare, ma a dire chi li abita.
È un lavoro maniacale, che fa sentire il giocatore dentro, non accanto. La regia sfrutta questa ricchezza visiva con eleganza: lente panoramiche su quartieri colorati dalla luce del tardo pomeriggio, camera stretta nei momenti tesi, angoli che si aprono solo se ci si prende il tempo di osservare. I dettagli, maioliche screpolate, fotografie in bianco e nero, santini appesi, fanno da scenografia emotiva. Si arriva a sentire il bisogno di rallentare solo per guardare, perché ogni elemento dice “questa è casa”.
Su PS5 il colpo d’occhio è stabile: tempi di caricamento rapidi, densità di folla perfetta, resa dei materiali convincente e un uso accorto delle vibrazioni e dell’audio spaziale per dare corpo alle scene. Il DualSense sostiene la mimesi con vibrazioni raffinate, il contraccolpo asciutto delle armi, la ruvidità dei basolati e il tremore leggero quando passa un convoglio. Non mancano però inciampi episodici dell’IA nelle folle o qualche missione che allunga il passo, ma il quadro resta nel complesso coerente e curato nei minimi dettagli.
UN GAMEPLAY CON CUORE E TENSIONE NARRATIVA
Mafia: The Old Country si poggia su una struttura che bilancia libertà e intenzione autoriale. Non c’è la smania della checklist, bensì una mappa densa, con contenuti che dialogano con la trama. Le missioni principali alternano infiltrazione, investigazione e scontri a fuoco. Le sparatorie sono secche e mortali, più vicine al dramma che all’arcade, con un feedback delle armi deciso e un time-to-kill breve: espongono, non intrattengono soltanto.
Le coperture richiedono disciplina, gli spazi stretti dei vicoli obbligano a “calià” la testa e cambiare traiettorie; la verticalità dei centri storici, scale, tetti, ballatoi, rende gli inseguimenti nervosi e riconoscibili. Il sistema d’infiltrazione invece privilegia il ritmo: linee di vista leggibili, rumori che contano (la “lapa” che copre i passi, la porta che scricchiola e tradisce), percorsi secondari che premiano l’osservazione. Le missioni investigative invitano al dialogo e all’ascolto: carpire indizi al mercato, leggere la disposizione di una stanza, intuire quale “catojo” nasconde il passaggio giusto.
È un design che fa del contesto la meccanica principale: conoscere il quartiere diventa vantaggio ludico. Le attività collaterali infine non rappresentano un mero riempitivo. I “favori” costruiscono reputazione. I patti di protezione si possono negoziare, onorare o sciogliere, con conseguenze tangibili sul tessuto urbano. Un negoziante che ti stima ti avverte prima dell’arrivo degli “sbirri”, un artigiano apre una scorciatoia, una confraternita chiude una piazza. La città ricorda: “u cuntu torna sempre”.
Anche l’economia è narrativa: investire in una bottega non è un moltiplicatore astratto, ma un impegno da difendere quando la tensione sale. La guida dei veicoli valorizza il peso e l’inerzia sulle strade strette; le sospensioni “sentono” i basolati, le curve a gomito obbligano a frenate oneste. Il livello di difficoltà offre gradi di severità coerenti: alzandolo, l’IA coordina flanking e chiamate d’allarme, le risorse scarseggiano, gli errori si pagano. Nessuna inflazione di numeri: solo scelte più care. È un gioco che ti guarda negli occhi e, con affetto, ti dice “amunì”: se vuoi rispetto, guadagnatelo.
UN DOPPIAGGIO CHE È MUSICA DELLA TERRA
Il lavoro sul doppiaggio è semplicemente straordinario: su Mafia: The Old Country il suono è patria. Il doppiaggio in siciliano, con differenze nette tra cadenze palermitane e catanesi, non è un vezzo: è arcata portante. A Palermo la frase si allunga, sorride, ironizza. A Catania invece morde, accelera, vibra come lava sotto pelle.
Il lessico cambia con finezza: un “bedda” detto al momento giusto addolcisce una ruvidezza; un “ma chi bbuoi?” taglia una trattativa; “sta scuntrannu guai” o un “u capu è capu” chiude la discussione. Non c’è caricatura: c’è riconoscimento. È il primo titolo mainstream dove la lingua diventa protagonista, e chi la conosce non può che sentirsi riconosciuto. Chi la lingua la porta nel cuore si sente visto, chi non la conosce capisce senza glossario grazie a recitazioni pulite e sottotitoli puntuali.
Il tutto è impreziosito da un sound design che è un mosaico vivo. I mercati hanno “u scrusciu” giusto, con voci che si richiamano e si sovrappongono senza impastarsi. Le chiese respirano di echi lunghi. I cortili restituiscono passi, stoviglie, radio lontane. Le armi suonano asciutte, senza hollywoodismo: più botto che fuoco d’artificio. I motori hanno timbri identificabili, dalla “lapa” al camioncino. L’audio 3D lavora in sottrazione, aprendo spazi quando serve e serrandoli nei vicoli.
È una geografia sonora che ti orienta anche a occhi chiusi. La colonna sonora intreccia corde e percussioni con strumenti popolari, evitando il folclore cartolina. Tema principale riconoscibile, variazioni sobrie, inserimenti diegetici che sembrano appartenere ai luoghi: una banda che prova in lontananza, un grammofono che gratta, una serenata che buca la notte. Quando, in un momento cruciale, una voce intona piano “comu si?”, non è solo musica: è casa che ti chiama per nome.
DA AVERE SENZA RISERVE
Mafia: The Old Country è un’opera che sceglie la responsabilità della verità. È un gioco che sa di mare e ferro, di sangue e abbracci, di silenzi che raccontano più di mille parole. Racconta una terra con amore e lucidità, senza semplificarla, senza sfruttarla. Ludicamente è denso, coerente, deciso; artisticamente è una dichiarazione d’amore verso la Sicilia; sul piano sonoro invece è un abbraccio per chi riconosce quei suoni e un invito per chi li scopre. Non è il parco giochi di chi colleziona icone: è il romanzo interattivo di chi vuole ascoltare il “cuntu” e restituirgli dignità.
Certo l’opera di Hangar 13 non è perfetta: qualche sbavatura tecnica c’è, qualche missione allunga il passo. Ma in fondo, anche la Sicilia è fatta di bellezza imperfetta. È raro trovare un videogioco capace di parlare con il cuore di una terra. Se cercate quindi un’esperienza che profumi di zagara e ferro, che sappia di sale e di caffè amaro, che vi faccia dire alla fine “sta casa è aperta pi tia”, allora questa è la vostra storia. E, forse, anche un poco la vostra famiglia.
Pregi
Trama intensa e coinvolgente impreziosita da dialoghi credibili e ricchi di emozione. Personaggi secondari memorabili, vivi, con biografie che emergono anche fuori dalla scena. Gameplay narrativo profondo, con missioni che privilegiano il contesto alla quantità. Direzione artistica elegante e consapevole, con uso raffinato della luce mediterranea e della regia. Doppiaggio in siciliano eccellente, con differenze autentiche tra cadenze palermitane e catanesi. Comparto grafico curato nei minimi dettagli, dagli esterni alle architetture interne. Sound design immersivo, pieno di "scruscii", rumori ambientali e musicalità siciliana non folkloristica.
Difetti
IA della folla talvolta imperfetta, con comportamenti poco reattivi in scene di tensione. Alcune missioni secondarie risultano diluite, con un ritmo meno incisivo rispetto al cuore narrativo del gioco. Sistema di guida poco flessibile in spazi aperti, con telecamera che fatica a gestire le strade larghe. Alcuni momenti di gameplay poco bilanciati, con picchi di difficoltà improvvisi o meccaniche che richiedono ulteriore rifinitura.
Voto
8